Maelstrom

di Giacomo Sillari



        Che bella, Piazza della Signoria! Mi è sempre piaciuta: non dico che è bella solo perché bello è il modo in cui sono capitato qui, ora. Precipitato, dovrei dire, piuttosto. Quando ero piccolo abitavo a Bologna, lei invece a Padova. Poi lei si trasferì a Bologna, perché figlia d'un rampante banchiere che saltava da una città all'altra con l'agilità d'una pulce. Lì c'innamorammo (lo dico con una certa soddisfazione, perché fino a non molto tempo fa avrei usato, piuttosto: m'innamorai). Finché la pulce non saltò a Milano (ma comunque la mia bella innamorata, ahimé, lo seguiva assai volentieri...). Tutto questo accadeva dieci anni fa. Dopo dieci anni tutti e due, lei da Milano, io da Bologna, siamo precipitati in Piazza della Signoria, a Firenze.
        È stata lei a propormi d'incontrarci qui. La settimana scorsa dovetti telefonare, per affari, ad una banca milanese. Il centralino mi passò l'ufficio competente. La responsabile mi rispose, e si presentò. Rimasi qualche secondo in silenzio, poi riconobbi la voce, l'intonazione: tutto. Le proposi di vederci, lei accettò. «A Firenze, in Piazza della Signoria», mi disse. L'idea mi piacque molto, decidemmo per incontrarci oggi, ed eccomi qua. «In una banca», pensai. Poverina.
        Così, oggi, quel che mi riempie di meraviglia è una cosa sola: quanto lento si muova l'orologio a una sola lancetta del Palazzo Vecchio. Per un momento ho avuto il terrore di doverlo veder scorrere troppo velocemente, quell'orologio, nel caso che lei non fosse venuta. Ma poi ho pensato che a neanche cento metri da me sta l'Annunciazione di Simone Martini, ho controllato che non ci fosse un'insormontabile coda di turisti, e mi sono messo l'anima in pace. Osservando le persone nella Piazza, aspettavo. Cercavo di immaginarmi come si fosse vestita. Avrebbe avuto una divisa da banchiere? Confesso che lo ritenevo possibile, e temevo che questo avrebbe provocato, subito e irrimediabilmente, una mia enorme delusione. D'altra parte ero certo che non indossava più quegli abiti neri, che mi piacevano tanto perché facevano risaltare il suo incarnato chiaro, e quindi ancora di più i suoi occhi nerissimi, nei quali mi divertivo sempre a cercare le pupille, che non riuscivo mai a vedere (ma ogni volta avevo la sensazione d'aver visto più profondamente lei: per questo amavo completamente i suoi occhi nerissimi— non potevo mai smettere di cercarvi qualcosa, non potevo fare a meno di trovarvi qualcosa, non potevo mai essere soddisfatto per sempre di quel che avevo trovato). Pensavo che adesso lei si vestisse d'una via di mezzo, che le permettesse decoro al lavoro, ma che insieme mi potesse ricordare di lei com'era dieci anni fa.
        Il sole caldo di questa giornata di aprile rischia di appassire il mio mazzolino, pensavo. E mentre sorridevo di questa sciocchezza, ci vedemmo.

        È vestita d'un estivo abitino bianco, e porta un grazioso cappello di paglia, con un fiocco rosso come le scarpe. La trovo incantevole, anche se faccio fatica a indovinare il suo viso, così da lontano e coperto dagli occhiali da sole. Vestita di bianco... l'esatto opposto di dieci anni fa. Ma l'esatto opposto anche del tailleur grigio che temevo. Una meravigliosa sorpresa (e chi dubitava, del resto, che avesse smesso d'esser sorprendente?). Ci avviciniamo, lei ha un'andatura strana, dondolante. Scherza. La bocca mezza aperta si atteggia a un sorriso di sorpresa. Apro anch'io la mia. Voglio scherzare anch'io: la indico col dito e mi dipingo l'espressione più stupita che posso sulla faccia. Ci avviciniamo dondolando l'uno all'altro. Passo dopo passo esamino il suo volto. Mi dà fastidio tutto quel che è cambiato, i segni del tempo che è passato, i segni che la fanno ai miei occhi diversa da allora, lontana dal nostro amore, estranea al mio presente. Allora m'impegno a cercare tutto quel che è rimasto, e meno con sorpresa che con gioia, dietro a ogni segno dei dieci anni che ci separano l'uno dall'altra, trovo le cose di allora. Passo dopo passo torno indietro negli anni, finché siamo distanti non più di due o tre passi. Ci fermiamo, continuiamo a scrutarci. Inizio a girarle attorno. Ci scrutiamo come per sincerarci che siamo ancora noi. Ci giriamo attorno. All'improvviso sento il suo profumo, lo stesso di dieci anni fa, che amavo tanto. Ci abbracciamo, a lungo, e più volte ci separiamo per tornare ad abbracciarci.
        «Sei ancora tu», mi dice. Banalità per banalità: «Lo ammetto». Silenzio. Forse non abbiamo nulla da dirci? Sudo freddo. «Temevo che il mazzolino appassisse, sotto a questo sole», dico, le porgo i fiori, lei li prende sorridendomi. Sta ancora zitta. La sciocchezza sui fiori che appassiscono, neanche divertente e che anzi sembra rimproverarle un ritardo che non c'è, moltiplica il mio imbarazzo. Indovino che tace perché la diverte, o forse le piace, il mio imbarazzo. «Sei ancora tu», ripete quasi ridendo. Buffo: questa volta non è più una banalità, il mio imbarazzo scompare come d'incanto e la invito a sederci perché, naturalmente, avremo tante cose da raccontare...

        Seduti al caffè, rivolti verso il Palazzo Vecchio, parliamo, parliamo, parliamo. È il tentativo disperato di rinchiudere dieci anni di eventi, di sentimenti, di esperienze, curiosità, cose degne di nota e banalità, viaggi, pensieri. Di rinchiuderli dentro allo spazio e al tempo concesso da una tazza di tè e da un vassoio di pasticcini. È un'impresa disperata, e non tardiamo ad accorgercene. Eppure continuiamo, perché la nostra volontà d'annullare quei dieci anni trascorsi è più forte di qualsiasi altra riflessione. Si compie il miracolo. Come prima, nella piazza, ci giravamo attorno guatandoci come due cani si studiano, così qui seduti al caffè le nostre parole, i nostri discorsi, s'inseguono in tondo, si scrutano, s'annusano, e pian piano si avvicinano, uscendo le parole sempre più facilmente, sempre più immediate. Lentamente, con la lentezza che è loro necessaria, i cerchi dei nostri racconti si stringono attorno a un centro. Entrambi conosciamo esattamente questo centro. Abbiamo parlato di noi: dei nostri lavori, lei m'ha parlato della sua famiglia, io della mia vita solitaria. Poi lei ha iniziato a raccontarmi dei suoi sentimenti, io a raccontarle del mio ultimo amore. Il cerchio va sempre più stringendosi, e i racconti s'allontanano dal presente. Mi racconta di quando conobbe chi sarebbe poi diventato suo marito, le racconto di quella mia passione fortissima, vissuta pochi anni dopo che ci lasciammo. Il cerchio si stringe, si stringe. Le parole, prima copiose e veloci, sono adesso più rare, ma il peso di ognuna aumenta. L'espressione del volto, e poi quella degli occhi, si legano alle parole che pronunciamo, e i nostri sguardi, e le nostre parole vengono dalla regione più profonda del petto. Una sorta di ebbrezza si va impadronendo di noi: da quanto tempo non ci capitava di scendere in quella regione profondissima? Cosa ci nasconde, cosa ci riserva?
        Le tazze, il vassoio sono vuoti. Gli altri tavoli, il Palazzo Vecchio inghiottiti dai suoi occhi nerissimi. Siamo soli, noi due. Siamo in silenzio: ci guardiamo con un impercettibile sorriso. Ma le minuscole pieghe agli angoli della sua bocca, insieme al suo sguardo, sono un mondo intero. Il cerchio delle nostre parole ha cessato di stringersi. Abbiamo raggiunto il centro. Siamo in silenzio, e il nostro silenzio non lo rompe il cicaleccio dei tavoli vicini, né il frastuono della macchina che pulisce la piazza. È come ci guardassimo intorno, in quella regione profondissima dei nostri petti, e cercassimo di abituarci di nuovo a questa assoluta intimità. Ci guardiamo attorno, i miei occhi fissi nei suoi, i suoi nei miei. Riprendiamo confidenza con la nostra antica intimità. Ho paura a muovere un solo passo. Ho paura che il terreno crolli sotto ai miei piedi. Passati dieci anni, quel terreno saprà ancora reggere il mio peso? Respiro appena. Ci separano pochi metri: ma un solo passo può dividerci senza scampo. Mi accorgo che il silenzio ha cominciato a rendere il terreno sempre più fragile. È un lampo che attraversa i miei occhi, e che vedo immediatamente riflesso nei suoi. Faccio un gran respiro, apro la bocca, ricominciamo a parlare.
        Non parlo più di me, non parla più di lei. Ecco i nostri sentimenti, nostri di me e lei insieme. Ecco che, lentissimamente, parliamo di noi, del nostro giovane amore, meno con le parole che con i volti. Ecco che, lentamente, cominciamo di nuovo a scrutarci e a girarci intorno. Prima ricordiamo certi episodi. Ricordiamo certe belle giornate condivise, una festa, una giornata in campagna. Ricordiamo il posto dove andavamo a baciarci. Ricordiamo la prima volta che ci baciammo. Cominciamo a ricordare cose che non ci eravamo mai confessati: certe speranze, certe angosce, certe sorprese liete e certe delusioni che in quegli anni ciascuno di noi non aveva mai osato rivelare all'altro. Cominciamo a farci delle domande: ci diciamo l'un l'altro quelle cose importantissime che non ci chiedemmo mai, che fecero terminare il nostro amore. Ogni momento che passa le nostre parole si fanno sempre più deboli, i nostri gesti sempre più pesanti. Ormai comunichiamo non più con le parole, e uno sguardo più profondo, lo sfiorarsi delle nostre mani, le carezze, i sorrisi: questo è ciò che conduce il discorso, queste le cose che significano. Finché del tutto facciamo a meno delle parole.
        Continuiamo il nostro girare intorno, intorno ad un centro che via via si fa più chiaro. Ogni volta che crediamo di averlo raggiunto allunghiamo una mano per coglierlo, ma ci accorgiamo che non è più lì. E lentamente inizia di nuovo la nostra spirale, la nostra doppia spirale. Ad ogni passo è più chiaro dove andremo a finire. In questo modo, passo dopo passo, abbiamo lasciato il caffè, abbiamo passeggiato senza far caso ai monumenti attorno a noi, ci siamo abbracciati, ci siamo baciati, abbiamo raggiunto l'albergo, la camera, ci siamo baciati di nuovo, e accarezzati, e spogliati, abbiamo fatto l'amore.

* * *

        Un insensibile potrebbe insinuare che quello lì sia stato il centro verso il quale una forza misteriosa inevitabilmente ci ha trascinato. Il mio centro, la mia meta, il suo sesso; la sua meta il mio. Nulla di più falso. L'incontrarsi dei nostri sessi non è stato diverso da tutto quello che lo ha preceduto: solo più intenso. Nell'incontrarsi dei nostri sessi si è rispecchiato esattamente lo scherzoso dondolarsi che ci ha catturato appena incontrati. È stato il dondolare dei nostri piaceri. Che la mia meta sia stata il suo piacere, e la sua il mio? Questo è già più verosimile, ma non è ancora la verità.
        In realtà il centro misterioso che abbiamo cercato dal primo istante, dubito che esista. In realtà il nostro avvicinarci e allontanarci e di nuovo avvicinarci, il nostro guardarci sempre più da vicino, sempre più in profondità, il nostro capirci usando sempre meno le parole, non potevano raggiungere la loro meta. Prima aver bisogno di mille parole, per mostrare se stessi. Poi solo di poche parole. Poi solo di un gesto. Solo di uno sguardo. Di un respiro. Poi? Proprio questa è la meta ricercata: il cercarla, l'interrogativo che rimane senza risposta.
        Il terrore prende allora la forma dell'abisso: girando attorno a un centro che non c'è... Quel che tanto ardentemente s'è cercato e desiderato, non esiste... Quelle muraglie e quei fossati che abbiamo saltato e scavalcato, non racchiudevano nulla. Quello che tanto abbiamo agognato, quello cui abbiamo dato il più alto valore, non è nulla. Nulla, dietro alle nostre parole. Il piede vacilla sull'orlo. Il terreno cede. Qualcosa cade nell'oscurità. Cosa può salvarci dalla mortale caduta nell'abisso?

        Lei adesso mi è lontana, nella sua casa, con suo marito, con persone amiche che non conosco, con una vita a me ignota, rivelatami solo dai suoi racconti, e dunque solo parzialmente, minimamente. È questa lontananza che eccita in me il pensiero del nulla e dell'abisso. Ma la spaventosa visione di esso mi riporta alla mente il ricordo di lei, il ricordo della nostra giornata, il nostro amore che tanti anni non sono riusciti a sopire. Paradossalmente è l'abisso a salvarmi, a evitarmi di precipitare nel nulla. È la visione di questo (terrificante perché chiarissima) a spingermi di nuovo verso di lei, a riaccendere la tensione vitale del nostro girarci attorno, del nostro cercare. Se l'oggetto del nostro cercare non esiste, o è incomprensibile, o irraggiungibile, esso altro non può fare che spingermi di nuovo verso di lei. Si vive nella tensione suscitata dalla ricerca, e l'abisso oggetto della ricerca crea il terrore che dà energia a quella tensione. Più ci si avvicina all'abisso, dunque, più forte riuscirà la tensione. Io l'amo e passeggio senza cautela sull'orlo.


Alto Tradimento #5
Vera Storia di James BluddBuio